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mercoledì 21 luglio 2010

Consigli per la preparazione al concorso in magistratura

CENNI INTRODUTTIVI

Il concorso in magistratura è tra quelli più difficili che un laureato in giurisprudenza possa affrontare.

Chi si vuole dedicare alla preparazione di questo concorso deve preventivare una media di almeno tre anni di studio intensissimo.

Lo studio per la magistratura, però, presenta un vantaggio non indifferente rispetto ad altri concorsi: le materie oggetto della prova scritta risulteranno infatti utilissime per affrontare concorsi di altro tipo (segretario comunale, esame da avvocato, notariato, commissario di polizia e vari concorsi nelle amministrazioni statali e degli enti locali per impiegati e funzionari dal settimo livello in poi).




Il concorso consiste nelle seguenti prove:

1) una prova scritta su tre materie;

2) una prova orale su 13 materie.

L'esame scritto consiste in tre prove nelle seguenti materie:

1) diritto civile;

2) diritto penale;

3) diritto amministrativo.

Chi supera le prove scritte riportando la sufficienza in tutti e tre i temi è ammesso a sostenere l'orale, che verte sulle seguenti materie:

a. diritto civile ed elementi fondamentali di diritto romano;

b. procedura civile;

c. diritto penale;

d. procedura penale;

e. diritto amministrativo, costituzionale e tributario;

f. diritto commerciale e fallimentare;

g. diritto del lavoro e della previdenza sociale;

h. diritto comunitario;

i. diritto internazionale pubblico e privato;

l. elementi di informatica giuridica e di ordinamento giudiziario;

m. colloquio su una lingua straniera scelta fra le seguenti: inglese, spagnolo, francese e tedesco.

LE SCUOLE

Frequentare una buona scuola è senz'altro un utilissimo ausilio alla preparazione. Studiare da soli è possibile (e anzi, è la sola possibilità per chi abita in zone disagiate e non dispone di grandi mezzi economici per trasferirsi in un posto dove esista una scuola). Tuttavia seguire un buon corso di magistratura dà numerosi vantaggi:

- vi stimola a studiare più approfonditamente e contribuirà a farvi annoiare meno nello studio;

- vi assegneranno dei temi, che in genere verranno corretti; ciò servirà per farvi capire le vostre possibilità. Potrete infatti verificare il vostro reale stato di preparazione e, soprattutto, vi verrà dato un giudizio sul vostro modo di scrivere. E' frequente che non ci si renda conto di scrivere con uno stile troppo prolisso, o troppo sintetico, fino a che non ci viene detto da persone estranee.

- Serve a tenervi costantemente aggiornati; studiare da soli a volte fa perdere di vista le novità giurisprudenziali, dottrinali e legislative.

- Una funzione residuale, ma non per questo poco importante, è quella di calcolare meglio le vostre possibilità; al corso conoscerete tante persone preparatissime e studiose, e ciò servirà spesso per farvi capire che non avete una preparazione eccezionale, ma solo sufficiente. Una sensazione molto comune dopo mesi di studio è spesso quella di sentirsi molto ferrati e sicuri di sé. Frequentando un corso, invece, si finisce per conoscere persone che sanno a memoria le sentenze del Tribunale di Tempio Pausania e che si sono lette praticamente tutti i testi in commercio, compresa la pregevole monografia sul contratto di affitto del garofano di Vitulanio Pompozzi. Oppure vi capiterà che, dopo aver citato le materia di competenza della giurisdizione esclusiva del TAR, qualcuno vi farà notare con noncuranza che non avete citato "i ricorsi in materia di spese per la somministrazione del chinino ai coloni affetti da febbri palustri"; per coloro che, come noi, non sanno neanche cos'è il chinino, può essere un duro colpo; ma queste esperienze, pur se dure da digerire, vi faranno capire che, in fondo, esiste gente anche più preparata di voi e che dovete studiare ancora di più, senza cullarvi sugli allori.

COME SI SCEGLIE UNA SCUOLA

Qualunque corso scegliate, ricordate che la scuola migliore non esiste e l’unica differenza tra chi vince il concorso e chi non lo supera, la fate voi con il vostro studio.

Comunque i requisiti per scegliere un corso sono i seguenti (in ordine di importanza).

- Un programma predefinito che venga svolto con regolarità; in alternativa, è comunque importante che gli argomenti trattati a lezione vengano segnalati in anticipo, per poter seguire meglio e con maggior produttività ogni lezione;

- lezioni tenute da docenti che spieghino in modo chiaro e approfondito. Non importa chi è il docente, ma importa come spiega.

- assegnazione e correzione regolare dei temi, con possibilità di rivolgere domande al docente in merito ai criteri di correzione.

- la qualità del materiale aggiuntivo fornito a lezione, ad integrazione dei libri di testo.

CONSIGLI PER LA PREPARAZIONE

- Non si può indicare, neanche approssimativamente, il tempo occorrente per prepararsi al concorso in magistratura, perché dipende da una serie di fattori individuali. Comunque, ipotizzando che non si svolgano altre attività e che si studi a tempo pieno, è ragionevole mettere in preventivo almeno due anni di studio intenso (un anno se si è molto veloci e si ha facilità nel ricordare i concetti, mettendo in conto anche una buona dose di fortuna il giorno del concorso). Per qualcuno saranno necessari 4-5 anni o anche più.

- La preparazione va affrontata per gradi.

Inizialmente consigliamo di affrontare a livello manualistico una materia per volta, magari utilizzando il manuale usato all'università (ovviamente in una versione aggiornata).

Successivamente le materie vanno affrontate in modo più approfondito, nel qual caso è consigliabile portare avanti lo studio di tutte e tre, per evitare che se ne assimili una dimenticando quella studiata in precedenza.

- Per quanto riguarda il tempo da ripartire tra le varie materie consigliamo di dedicare il 50% del vostro tempo al diritto civile, e suddividere il tempo restante tra il diritto penale e il diritto amministrativo.

- Contemporaneamente allo studio è consigliabile esercitarsi a scrivere temi, preferibilmente seguendo una buona scuola. Chi non ha tempo per frequentare una delle diverse scuole di magistratura che esistono in tutta Italia può prendere in considerazione l'ipotesi di iscriversi ad uno degli oramai numerosi corsi on line.

Esercitarsi a scrivere è assolutamente fondamentale per essere in grado di affrontare con successo le prove di concorso.

- Cercate di studiare ogni materia su due o anche più testi. Nessun libro, infatti, per quanto scritto bene e completo, può trattare una materia in modo esaustivo; vi saranno sempre zone d'ombra o argomenti trattati male. In linea di massima vi consigliamo di studiare bene un testo (che chiameremo testo base) che dovrete conoscere perfettamente e utilizzare poi uno o più testi per approfondire o consultare gli argomenti più importanti.

Leggere un libro diverso vi dà numerosi vantaggi: vi aiuta nel ripasso, facendovi fissare meglio i concetti fondamentali; vi evidenzia argomenti che il vostro testo base trascura o tratta male; rende meno noioso lo studio. Quello che diciamo è particolarmente vero se riferito al diritto amministrativo e ad alcuni settori del diritto civile (in particolare obbligazioni e contratti).

- Un buon metodo di studio consiste nel mettere per iscritto ciò che si è appreso, riassumendo il contenuto di più testi. Lì per lì vi sembrerà di perdere tempo; vi accorgerete, però, che una volta fatti, i vostri appunti saranno sempre lì, pronti per essere studiati in pochi minuti ogni volta che nel corso degli anni successivi ne avrete bisogno.

- Spesso si sente dire che alcuni argomenti possono essere saltati, perché al concorso non vengono richiesti; di conseguenza si tende a trascurare il diritto delle successioni e i diritti reali in diritto civile; in diritto penale viene in genere trascurata la parte speciale.

Questo atteggiamento è decisamente sbagliato; in primo luogo perché in diritto civile ogni settore è collegato con un altro, e lo studio dei singoli istituti non può essere completo se non si ha una visione d'insieme della materia. Conoscere il diritto delle successioni, o i diritti reali, quindi, aumenta il livello di conoscenza e di comprensione di tutti gli altri istituti.

In secondo luogo chi volesse controllare i titoli dei temi assegnati nel corso degli anni, potrà constatare di persona che argomento di concorso può essere qualsiasi settore del diritto civile. Il fatto che da anni in diritto civile non assegnino un tema sulle successioni non vi deve affatto tranquillizzare sul fatto che ciò non capiterà più.

- Non trascurate le materie della prova orale. Dopo aver dato il concorso una prima volta sarebbe una buona regola iniziare a studiare le più importanti materie, come la procedura civile e penale; spesso, infatti, una volta ricevuta la comunicazione dell'ammissione alle prove orali, rimangono solo due o tre mesi di tempo per poter preparare tutte le materie. Ed essere bocciati all'orale dopo aver superato le prove scritte, certamente non influirà positivamente sui vostri nervi e sulla vostra qualità di vita.

- Abbonatevi almeno ad una rivista giuridica e tenetevi aggiornati sui più recenti sviluppi della giurisprudenza e della dottrina.

Il nostro consiglio è di abbonarvi alla rivista Altalexmese, che è pensata prevalentemente per gli studenti, oltre che per l’aggiornamento professionale rapido. Questa rivista vi darà modo di conoscere il contenuto delle sentenze in tempi rapidi e di poter assimilare con facilità la giurisprudenza recente, grazie ai riassunti e agli schemi.

Come si redige un tema

Ordine della trattazione.

Nella trattazione del tema seguite il seguente ordine.

Nozione e definizione dell’istituto.

Natura giuridica dell’istituto.

Fondamento dell’istituto.

Figure affini.

Principali questioni sollevate dall’istituto (questioni di costituzionalità, problematiche controverse, ecc.).
.
Talvolta però non viene chiesto di trattare un istituto, bensì una serie di istituti collegati tra di loro. Ad esempio se il titolo è “Trattate della patologia del contratto, con particolare riferimento alla nullità, l’annullabilità, la rescissione e la risoluzione” non dovete trattare in modo puntuale tutti gli istituti ma dovrete limitarvi a tagliarli trasversalmente, nel senso che il vostro compito consiste nell’ individuare i tratti comuni e differenziali tra i vari istituti, spiegando soprattutto quali tra di essi sono da considerare una patologia del negozio e quali no, argomentando adeguatamente le vostre affermazioni.

Quali sono le cose da scrivere

Per ogni argomento il problema principale è selezionare le cose da dire (se si è troppo preparati) o inventarsi le argomentazioni (se l’argomento non lo si conosce bene).

Il candidato deve dimostrare di conoscere l’argomento ma non necessariamente di sapere tutto ciò che è stato detto e scritto dal 1942 ad oggi. Per ogni argomento non vanno riportate tutte le teorie, comprese quelle minoritarie. I due o tre orientamenti maggioritari saranno sufficienti.

Ad esempio in un tema sulla responsabilità contrattuale sarà sufficiente riportare il dibattito tra teoria soggettiva ed oggettiva; sarà invece superfluo riportare le teorie sul rischio di impresa, la teoria di Betti sulla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato o le varie teorie intermedie.

In un tema sul contratto collegato sarà sufficiente riportare la teoria maggioritaria sulla nozione di collegamento e descriverne i vari tipi, senza necessariamente riportare le teorie che negano al collegamento una sua autonomia concettuale.

Chi ha una buona preparazione di base, inoltre, dopo un po’ di tempo imparerà a ricostruire i vari orientamenti anche con la sola logica (questo è valido soprattutto nella materia del diritto amministrativo, che, come rileva Benvenuti, non è retto dal principio di legalità ma dal principio di caoticità, visto che ogni autore ha una visione differente e personale di tutti gli istituti). Ciò significa che al concorso, qualora vi capitasse un argomento che non avete studiato a fondo, potete tentare di svolgere il tema con il solo ausilio del codice (avvalendovi dei richiami in esso contenuti).

Stile

Il tema deve essere scritto con linguaggio semplice e il più possibile chiaro. Evitate di mutuare lo stile da autori poco comprensibili perché i commissari non hanno sempre la pazienza di leggere temi complessi.

Uno stile chiaro e una grafia leggibile sono la miglior garanzia di passare il concorso (posta l’indispensabile premessa che il tema non contenga concetti errati).

Citazioni di dottrina e giurisprudenza

Le citazioni di dottrina e giurisprudenza vanno evitate. A meno che non si citi una sentenza storica (ad es. in diritto amministrativo la famosa sentenza 500/1999) o unica nel suo genere.

Quanto alla dottrina va citata solo se l’autore è molto noto e la tesi che riportate è molto famosa e ha fatto epoca (ad esempio la tesi del Montesano sul preliminare o la tesi di Cassese sull’inesistenza dell’interesse legittimo).

Eventualmente usate espressioni come "parte della dottrina" "parte della giurisprudenza", "secondo un'opinione", "secondo una tesi", ecc., ma senza citazioni specifiche.

Redazione del tema

Prima di fare il tema fate una scaletta delle questioni che tratterete.

Se l’argomento non lo conoscete, niente panico. Molti argomenti si ricostruiscono a logica, e con l’ausilio dei codici e dei richiami a margine degli articoli.

Ad esempio in un tema sul contratto con obbligazioni a carico del solo proponente in alcuni casi compare a margine il richiamo all’articolo 1987; significa che il contratto in questione richiede un collegamento con il tema della promessa unilaterale. Se compare il 1813 e il 1803 (mutuo e comodato) significa che tali contratti sono considerati con obbligazioni a carico del solo proponente.

Vedrete che se avete studiato, anche qualora non conosceste l’argomento riuscirete a ricostruire un tema e a scrivere molto più di quanto vi immaginiate.

Esempio di svolgimento di un tema

Alla fine di queste pagine troverete alcuni esempi di temi svolti. Questi temi sono elaborati che vennero consegnati ai concorsi precedenti e ebbero una valutazione sufficiente o più che sufficiente.

CONSIGLI PER LO SVOLGIMENTO DELLE PROVE

Il concorso in magistratura non è solo una prova giuridica; è anche una prova fisica estenuante. Prima viene lo stress della consegna dei codici (il giorno precedente la prova), equivalente a ore di fila in piedi (con appresso lo zaino pieno di codici), ammassati l'uno contro l'altro; spesso queste ore di fila sono allietate dal caldo afoso di giugno o luglio, o dalle piogge invernali. Talvolta in fila comincerete a parlare con qualcuno che darà sfoggio della sua cultura giuridica e vi comincia a citare e memoria le sentenze della Cassazione, o la teoria di Rocco di Torrepadula sulla giurisdizione amministrativa, spiegandovi che secondo lui non si può non conoscere i suoi scritti se si vuole superare il concorso; in tal caso l'esaurimento nervoso è assicurato.

Il giorno seguente vi aspettano otto ore in un ambiente decisamente stressante; il tema viene sempre dettato dopo molte ore; talvolta capita di dover andare in bagno e trovare un carabiniere che comincia a bussare alla porta dopo tre minuti che siete dentro e da quel momento in poi vi bussa ogni 30 secondi chiedendo quanto tempo vi rimane.

Il primo consiglio, quindi, è quello di andare al concorso ben riposati per poter meglio sopportare lo stress di quei giorni.

- Consegnate il tema solo se conoscete bene l'argomento; molti vi diranno che un istituto giuridico si può anche ricostruire con la logica, e col tempo vi accorgerete che è vero. Ma vi accorgerete anche che, ricostruendo un argomento con la sola logica, aumentano molto le possibilità di dire cose inesatte.

- Prima di cominciare a scrivere il tema è bene dedicare un po' di tempo a pensare allo svolgimento di tutto l'elaborato; a tal fine sarà utile appuntarsi una scaletta che poi cercherete di seguire nell'esposizione. Eviterete lo spiacevole inconveniente di dover reimpostare il tema daccapo quando ormai sono passate 5 ore dalla dettatura.

- Siate sintetici e centrate l'argomento; se non lo conoscete è inutile girarci intorno dando sfoggio di cultura giuridica su tutti gli argomenti collegati. I commissari apprezzeranno la vostra cultura, ma saranno costretti ugualmente a bocciarvi.

- Evitate i temi lunghi. Qualcuno ha ancora una mentalità tipica da scuola elementare per cui più un tema è lungo, più si dimostra preparazione. Al concorso in magistratura i commissari hanno migliaia di temi da correggere, e lavorano per ore leggendo sempre gli stessi concetti; è dunque comprensibile che di fronte ad un tema di dodici o più facciate, magari corretto verso le otto della sera, qualcuno di loro si spazientisca solo a vederlo e lo legga con una predisposizione d'animo non del tutto benevola. Un tema di lunghezza media va dalle 4 alle 8 facciate. Se siete molto sintetici o molto prolissi vanno bene anche 3 o 10 facciate.

- Scrivete con grafia leggibile, e, soprattutto, evitate assolutamente gli errori di ortografia, che rappresentano causa di esclusione immediata (a meno che non risulti evidente che si tratta di un mero errore di distrazione).

- Infine, anche se ve lo ricorderanno gli stessi commissari il giorno del concorso, ricordatevi che nel tema non devono essere apposti simboli o scarabocchi che possono essere scambiati per segni di riconoscimento; attenzione quindi a non mettere i pallini al posto dei puntini sulla i e niente scarabocchi a margine del foglio per provare se la penna scrive. Se vi portate da mangiare state attenti a ciò che è unto e alle possibili macchie di cioccolato sul foglio; una delle esperienze più frustranti che possono capitare è quella di macchiare il foglio di cioccolato, e dover ricopiare tutto daccapo quando manca un'ora alla consegna.

CONSIGLI PER LE PROVE ORALI

Per preparare l'esame orale nonostante la mole di esso, sono sufficienti anche solo due o tre mesi di studio matto e disperatissimo.

Si sconsiglia pertanto di mandare i certificati medici per rinvii strategici a meno che non sia strettamente necessario. La commissione, infatti, spesso non vede di buon occhio i malati immaginari e potrebbe essere più esigente in sede di esame.

Non tutte le materie hanno lo stesso rango. Le materie oggetto delle prove scritte sono le più importanti; per le altre regolatevi in base alla presenza eventuale di un docente della materia stessa.

Diritto Civile

Premessi brevi cenni sull’inadempimento delle obbligazioni, indichi il candidato quale sia il regime probatorio ad esso applicabile. Precisi, in particolare, il criterio di riparto dell’onere della prova nel caso di domanda di adempimento, risoluzione o risarcimento del danno; nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto inadempimento; nel caso in cui il debitore convenuto si avvalga dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c.. Indichi, infine, su chi incomba l’onere della prova in caso di inadempimento dell’obbligazione negativa.

La norma fondamentale in materia di inadempimento delle obbligazioni è l’art. 1218 c.c. che prevede la responsabilità risarcitoria del debitore, nel caso in cui non esegua esattamente la prestazione da lui dovuta.
Il debitore potrà andare esente da responsabilità soltanto se fornisca la prova liberatoria consistente nella dimostrazione che l’inadempimento è stato dovuto ad impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

Parte della dottrina ha evidenziato l’apparente iato che sussiste tra la norma in parola e quella di cui all’art. 1176 c.c. in tema di diligenza nell’adempimento.

Tale norma prevede al primo comma la regola generale per cui il debitore deve eseguire la prestazione dovuta, usando la diligenza del buon padre di famiglia (secondo un criterio di medietà); al secondo comma fissa, invece, un canone di diligenza qualificata, rafforzata per le obbligazioni professionali.

L’apparente discrasia consiste nel fatto che l’art. 1218 c.c. non fa alcun riferimento al comportamento -diligente del debitore ai fini di un eventuale esonero da responsabilità per l’inadempimento.

Secondo l’impostazione tradizionale tale responsabilità sarebbe di tipo oggettivo o, secondo altri, presuntivo, nel senso che al debitore non è sufficiente dimostrare di aver tenuto una condotta diligente e che, ciò nonostante, l’adempimento dell’obbligazione sia risultato impossibile.

Si richiede, infatti, la dimostrazione in positivo dell’esistenza di una causa esterna alla sua sfera personale ed organizzativa, che abbia reso oggettivamente impossibile l’esecuzione della prestazione dovuta. Trattasi di un’impostazione di particolare rigore per il debitore, in quanto risulta evidente che grava su di lui il rischio della verificazione di una causa ignota (e pertanto non dimostrabile), che abbia reso impossibile l’adempimento.

Si richiede, inoltre, al debitore la predisposizione, a monte, di tutte le precauzioni necessarie per evitare che si realizzi una causa esterna siffatta e, inoltre, l’utilizzo di tutti gli strumenti che consentano, una volta che essa si sia verificata, di neutralizzarne gli effetti negativi. Solo ricorrendo tutte le condizioni suddette il debitore potrà andare esente da responsabilità per inadempimento.

Tale impostazione è ritenuta, dalla tesi in parola, giustificata, nel suo rigore, dalla considerazione che essa determina un riparto dei rischi nell’ambito del rapporto obbligatorio, coerente con la specifica posizione che assume il debitore. Difatti egli, poiché si impegna ad eseguire una certa prestazione, deve rispondere non soltanto di suoi comportamenti negligenti, ma anche di cause oggettive, impeditive dell’adempimento, ma la cui esistenza non sia dimostrata.

E’ emersa, però, un’altra tesi, dottrinale e giurisprudenziale, in tema di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni. Essa parte dalla considerazione che, nel nostro ordinamento, vige un principio valevole non solo in ambito civilistico, di soggettività della responsabilità.

Sarebbe dunque asistematica una regola siffatta che operasse in modo puramente oggettivo, in esatta antitesi con quanto previsto dall’art. 2043 c.c., che richiede, invece, il dolo o la colpa del danneggiante, responsabile ex lege aquilia.

Pertanto la tesi in parola afferma che si possa dare una lettura sincronica degli artt. 1176 e 1218 c.c., ritenendo che la colpa del debitore inadempiente sia presunta e che, dunque, al creditore competa provare esclusivamente il titolo dell’obbligazione (cioè, di regola, un contratto) e il fatto oggettivo dell’inadempimento (rectius: allegando quest’ultimo, per quanto si vedrà in seguito).

Mentre il debitore potrà vincere la presunzione di colpa a suo carico dimostrando di aver usato la necessaria diligenza, in quanto ciò equivale a provare presuntivamente (presumptio hominis) l’esistenza di una causa esterna a lui non imputabile ex art. 1218 c.c..

Altra parte della dottrina osserva che siffatto ragionamento è condivisibile per quanto concerne le obbligazioni professionali ex art. 1176 secondo comma in quanto per esse si richiede una diligenza qualificata, un comportamento massimamente diligente. Al contrario, nell’ipotesi del 1176 primo comma, potrebbe accadere che il debitore abbia usato la diligenza media richiesta dalla norma in questione, ma che una sua condotta massimamente diligente avrebbe potuto scongiurare l’inadempimento.

Precisati tali aspetti generali, è possibile analizzare specificamente il criterio di riparto dell’onus probandi nel caso in cui il creditore chieda, ex art. 1453 c.c., l’adempimento ovvero chieda la risoluzione del contratto per inadempimento.

Secondo l’impostazione giurisprudenziale invalsa fino ad un recente passato, tale criterio opererebbe in maniera differente nelle due ipotesi suddette. Difatti si osservava che nel caso dell’azione di adempimento al creditore competesse provare soltanto il titolo(id est: il contratto), potendosi egli limitare ad allegare l’inadempimento, mentre il debitore aveva l’onere di dimostrare di aver adempiuto ovvero di esservi stato impossibilitato per una causa a lui non imputabile ex art. 1218 c.c..

Nel caso di domanda di risoluzione del contratto, invece, si riteneva che la prova dell’inadempimento dovesse essere fornita dal creditore, poiché tale fatto rientra, ex art. 2697 c.c., tra quelli costitutivi della sua pretesa.

Nel primo caso, invece, si osservava che il creditore non si lamenta dell’inadempimento per ottenere lo scioglimento del vincolo contrattuale, ma chiede che venga eseguita la prestazione a lui dovuta, e dunque il fatto storico dell’inadempimento(NB: ho scritto inadempimento invece di adempimento, secondo te capiranno che è un lapsus?), in quanto estintivo della pretesa attorea, andrà provato dal debitore.

Sul punto è intervenuta, di recente, la Cassazione a Sezioni Unite per dirimere un contrasto interpretativo sorto sul punto, osservando che l’onus probandi va regolato in maniera identica nelle due ipotesi viste.
Si osserva, infatti, che entrambe tali azioni si fondano in realtà sul medesimo presupposto e cioè che il debitore non ha eseguito la prestazione da lui dovuta. Ciò si ricava dalla circostanza che l’art. 1453 c.c. consente la conversione, in corso di giudizio, della domanda di adempimento, potendo il creditore (che non abbia più interesse all’esecuzione tardiva della prestazione) optare per la risoluzione del contratto.

Tale previsione si spiega soltanto ritenendo che le due azioni in parola abbiano i medesimi presupposti e caratteristiche.

Pertanto la Suprema Corte ha ritenuto che in entrambe le ipotesi il creditore si limiterà a provare il titolo dell’obbligazione, allegando l’inadempimento e graverà sul debitore la prova contraria.E’ evidente, peraltro, che se il debitore intenda dimostrare non di aver adempiuto, ma la non imputabilità dell’inadempimento, tale prova si caratterizzerà diversamente a seconda che si accolga la tesi oggettiva o soggettiva, di cui sopra.

Tale affermazione viene motivata sulla base della considerazione che, in primo luogo, nei casi in cui sia dubbio il riparto dell’onere della prova, si applica un principio di vicinanza alla prova.

Ciò significa che chi si trovi in una situazione tale da poter più agevolmente fornirla, dovrà essere gravato del relativo onere. Dunque, posto che la dimostrazione di un fatto negativo, qual è l’inadempimento, è particolarmente ardua da dare, si ritiene ragionevole che sia il debitore a dover provare il fatto positivo dell’adempimento (o dell’esistenza di una causa non imputabile).

Difatti, se è vero che un fatto negativo può essere provato mediante il ricorso a fatti positivi contrari, è indubbio però che il debitore, essendo la situazione di cui si controverte nella sua sfera di disponibilità, possa essere ritenuto “prossimo” alla prova.

Si, aggiunge, inoltre, che deve trovare applicazione un principio di presunzione della persistenza di un diritto insoddisfatto, nel senso che, nel nostro ordinamento, se un soggetto dimostra di essere titolare di un diritto di credito, esso si presume insoddisfatto fino a prova contraria (da fornire ex art. 2697, secondo comma, c.c.).
Un problema ulteriore è quello relativo all’azione risarcitoria di cui all’art. 1453 c.c., per il danno cagionato dall’inadempimento.

Ci si chiede, in primo luogo, se essa possa essere spiccata in via autonoma o se, invece, si caratterizzi in termini di accessorietà rispetto all’azione di adempimento o di risoluzione del contratto. Si è osservato, secondo parte della dottrina, che vada riconosciuta a tale azione un’autonomia limitata, nel senso che essa non possa essere esercitata in via autonoma fino a quando l’adempimento sia ancora possibile in rerum natura.
Si ritiene, infatti, da parte di tale dottrina, che al creditore non è consentito, con una propria autonoma iniziativa, di modificare l’oggetto dell’obbligazione, convertendolo in una somma di denaro dovuta a titolo risarcitorio. Se, invece, la prestazione è ormai divenuta impossibile, ben può il creditore chiedere il risarcimento in via autonoma, essendosi l’obbligazione originaria già estinta per inadempimento.

Per tale azione, peraltro, vale il criterio di riparto dell’onere della prova visto in precedenza e cioè al creditore compete provare l’esistenza del titolo, allegando l’inadempimento.

Nel caso, poi, di inesatto adempimento, la Cassazione ha ritenuto che valga la regola generale sull’onus probandi enucleata per il caso di totale inadempimento, in quanto si osserva che il concetto di inadempimento è tale da ricomprendere sia il caso in cui la prestazione dovuta non venga eseguita affatto, sia il caso in cui venga eseguita in modo quantitativamente o qualitativamente inesatto.

Parte della dottrina ha contestato tale assunto, osservando che in tal caso un adempimento, sia pure inesatto, vi è stato e dunque al creditore non si richiederebbe di dimostrare un fatto negativo, ma positivo (l’adempimento inesatto). Inoltre il principio di vicinanza alla prova in questo caso si atteggia in maniera differente, considerando che il debitore ha eseguito la prestazione, spogliandosi del bene (se si tratta di un’obbligazione di dare) e dunque è il creditore ad avere la disponibilità della situazione materiale ai fini della prova.

Il debitore, convenuto in giudizio, può avvalersi, qualora si tratti di un contratto a prestazioni corrispettive, dell’exceptio inadimpleti contractus di cui all’art. 1460 cc. Trattasi di uno strumento di autotutela del sinallagma contrattuale, riconosciuto alla parte di un contratto a prestazioni corrispettive, allo scopo di non adempiere la propria obbligazione se la controparte non adempia, o non offra di adempiere, a sua volta.

Ciò presuppone, evidentemente, che tali obbligazioni scadano contestualmente, preservando, dunque, il nesso di interdipendenza funzionale tra le medesime.

Se il debitore oppone tale eccezione per paralizzare la pretesa attorea, è evidente che le considerazioni con riferimento all’art. 1453 c.c. vadano applicate, in tal caso, a parti invertite.

Sarà, cioè, il debitore a limitarsi ad allegare l’inadempimento altrui e graverà sul creditore l’onere di provare di aver eseguito la prestazione da lui dovuta, nell’ambito del rapporto a prestazioni corrispettive.

Passando, infine, ad analizzare come si applichi il criterio di riparto dell’onere della prova nel caso di inadempimento di un’obbligazione negativa, si deve osservare che in tal caso l’inadempimento non consiste in un fatto negativo, ma positivo.

Considerando, cioè, che le obbligazioni negative hanno ad oggetto un non facere, l’inadempimento si concreterà in un facere violativo dell’obbligo.

Pertanto in tal caso dovrà essere il creditore, per un principio di vicinanza alla prova, a dover dimostrare l’inadempimento (oltre, naturalmente, al titolo).

Tale affermazione trova ulteriore sostegno nel fatto che non può, in questa ipotesi, applicarsi un principio di presunzione di persistenza del diritto insoddisfatto, poiché nelle obbligazioni negative il diritto del creditore nasce soddisfatto, e si presume tale fino a prova contraria.

Voto: 14/20

Diritto Amministrativo

La discrezionalità tecnica della PA. Forme e limiti del sindacato del giudice amministrativo.

La nozione di discrezionalità deriva dal rapporto intercorrente tra legge ed attività amministrativa. Difatti il primo e fondamentale principio cui tale attività deve informarsi è il principio di legalità, dovendo essa trovare il proprio fondamento e i propri limiti in norme di legge.

La maggiore o minore intensità di tali limiti determina come diretta conseguenza una più ridotta o più lata ampiezza della discrezionalità di cui gode la PA nello svolgere la propria attività e nel dare attuazione e concretizzazione alla volontà del legislatore.

Da questo punto di vista si suole distinguere tra limiti generali e speciali dell’azione amministrativa. I primi ineriscono ad ogni e qualsiasi settore in cui opera la PA (vedi in primo luogo i principi di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost.); mentre i secondi riguardano specifici ambiti dell’operato della PA.

Qualora tali limiti siano tali da prosciugare qualunque profilo di discrezionalità in capo alla PA, in quanto predeterminano compiutamente il contenuto della sua attività, allora quest’ ultima si dice vincolata.

Peraltro è piuttosto infrequente che l’attività pubblicistica sia integralmente vincolata, anche sotto il profilo del quando, del quid (il contenuto), del quomodo (le clausole accidentali), oltre che dell’an.

Ciò si spiega in base alla considerazione che la legge non può prevedere a monte, in modo puntuale, tutte le possibili varianti del caso concreto, che dovranno essere apprezzate e valutate dalla PA.

La distinzione di fondo da cui è necessario prendere le mosse è quella tra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica.

La prima si articola in due momenti fondamentali: il giudizio e la scelta. Difatti la PA in primo luogo procede ad acquisire, mediante un’adeguata istruttoria, i fatti e gli interessi che vengono in considerazione nel caso concreto, per poi procedere, sulla base di quanto acquisito, all’effettuazione della scelta più conveniente, più opportuna alla luce dell’interesse pubblico da essa perseguito.

Il proprium di tale discrezionalità è, quindi, dato dalla compresenza di più possibili soluzioni, tra le quali la PA opta per quella che consenta di soddisfare in maniera più adeguata l’interesse pubblico primario, con il minor sacrificio possibile per gli altri interessi, pubblici e privati, coinvolti (c.d. principio del minimo mezzo).

Appare, dunque, evidente che l’esercizio della discrezionalità amministrativa deve uniformarsi sia alle norme di legittimità, sia alle norme extra-giuridiche di buona amministrazione (convenienza, opportunità, equità, eticità) che connotano il merito amministrativo.

Tuttavia il giudice amministrativo può sindacare soltanto l’osservanza del primo tipo di norme, essendogli preclusa la valutazione del merito (salvo ipotesi eccezionali di giurisdizione di merito).

La discrezionalità tecnica, invece, si connota come un giudizio avente ad oggetto un fatto complesso, la cui valutazione richiede l’utilizzo di cognizioni tecnico-scientifiche, che producono, per loro natura, esiti opinabili e, dunque insuscettibili di riscontro oggettivo. Trattasi, cioè, di fatti il cui apprezzamento avviene mediante l’utilizzo non di scienze esatte, che determinano esiti obiettivamente certi, ma di regole tecnico-scientifiche la cui applicazione richiede la necessaria intermediazione del singolo che effettua tale giudizio.

Difatti, proprio in relazione a questo profilo, si effettua la distinzione con l’accertamento tecnico, avente ad oggetto un fatto semplice, oggettivamente apprezzabile, e della cui piena sindacabilità da parte del giudice amministrativo, stanti tali caratteristiche, non si è mai dubitato.

L’esercizio di discrezionalità tecnica può essere strumentale all’emanazione di un provvedimento che può essere, a sua volta, discrezionale o vincolato.

Difatti l’esito del giudizio tecnico su di un fatto complesso può essere considerato dalla legge come il presupposto per l’emanazione di un provvedimento che ne sia la diretta e necessaria conseguenza (e dunque vincolato nel suo contenuto) ovvero rappresentare un elemento, un’acquisizione istruttoria, che concorre ad integrare il quadro conoscitivo sulla base del quale la PA è chiamata ad operare la scelta più conveniente per l’interesse pubblico).

In questa seconda ipotesi, poiché il giudizio tecnico è servente all’emanazione di un provvedimento discrezionale, si parla di discrezionalità mista. Con tale espressione, dunque, non si intende individuare un tertium genus di discrezionalità, ma si intende far riferimento ad un’attività amministrativa connotata da profili discrezionali non soltanto nel momento del giudizio, ma anche nel momento della scelta della soluzione più opportuna, effettuata sulla base dei fatti acquisiti anche mediante il ricorso ad una valutazione tecnica.

Precisati i caratteri e la natura della discrezionalità tecnica, possono essere più agevolmente compresi i problemi che essa pone in tema di sindacato giurisdizionale.

La posizione che la giurisprudenza amministrativa ha assunto fino ad un recente passato si basava sulla considerazione che la discrezionalità tecnica impinge sul merito dell’azione amministrativa (c.d. merito tecnico), in quanto, data la sua natura, non genera risultati suscettibili di apprezzamento obiettivo, ma opinabili. Il connotato fondamentale di un giudizio tecnico, cioè, è la soggettività del suo esito, pertanto si riconducevano al genus della soggettività, accomunandoli, il concetto di opportunità che caratterizza il merito amministrativo e il concetto di opinabilità proprio della discrezionalità tecnica.

Sulla base di questa argomentazione di tipo sostanziale si riteneva che il sindacato del giudice amministrativo dovesse essere meramente estrinseco, non potendosi, cioè, sostituire alla PA mediante una riedizione del giudizio tecnico da essa effettuato, ma dovendosi limitare a verificare la sussistenza di profili di palese illogicità, irrazionalità, erroneità nell’operato della PA.

Il giudice, dunque, effettuava un controllo con le conoscenze del profano e non del tecnico, valutando la presenza di indici estrinseci che facessero presuntivamente ritenere scorretto il risultato di tale giudizio.
Tale impostazione era ritenuta conforme al principio di riserva della funzione amministrativa, non potendosi il giudice sostituire alla PA nell’effettuazione di valutazioni discrezionali e dunque soggettive. Si aggiungeva, poi, un ulteriore argomento di carattere processuale e, cioè, che il giudice non aveva gli strumenti per ripetere la valutazione tecnica della PA, non essendo previsto nel processo amministrativo, fino al 1998, lo strumento della consulenza tecnica.

L’ordito argomentativo esposto è stato poi superato dalla giurisprudenza successiva, valorizzando la considerazione che il giudizio tecnico è un giudizio su di un fatto, sebbene complesso, e come tale non può sottrarsi ad un sindacato pieno da parte del giudice. Difatti il principio di riserva della funzione amministrativa riguarda soltanto il profilo dell’opportunità delle scelte operate dalla PA per il soddisfacimento del pubblico interesse, in quanto in ciò consiste il profilo qualificante, e come tale insindacabile, dell’azione amministrativa.

Appare, dunque, improprio, accomunare la discrezionalità tecnica con il merito amministrativo, dovendosi tenere distinti i profili dell’opinabilità da un lato e dell’opportunità dall’altro.

Inoltre si è avuta l’introduzione nel processo amministrativo dello strumento della consulenza tecnica, dapprima, con l’art. 35, d.lgs. 80/98, per le materie di giurisdizione esclusiva e poi, con l’art. 16, L. 205/2000, anche per la giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo.

Sulla base di tali elementi si è, dunque, ritenuto che il sindacato giurisdizionale debba essere non meramente estrinseco, ma intrinseco.

Ciò sta a significare che il giudice può ripetere, con l’ausilio di un consulente tecnico, il giudizio operato dalla PA, facendo applicazione delle stesse regole tecnico-scientifiche da essa utilizzate.

Peraltro, secondo l’impostazione preferibile, il giudice non può sostituire la propria valutazione a quella operata dall’autorità amministrativa sul presupposto della mera non condivisione della medesima, ma soltanto se ed in quanto ne accerti l’erroneità.

Difatti il giudizio tecnico ha un esito per sua natura opinabile ed è dunque fisiologico che esso, se effettuato da soggetti diversi, possa produrre risultati non coincidenti. Pertanto solo se, una volta effettuata la riedizione di tale giudizio, il giudice lo ritenga viziato potrà annullare il provvedimento impugnato.

Tale soluzione appare conforme al principio della separazione dei poteri, modernamente inteso, in forza del quale il giudice non ha la funzione di sostituirsi alla PA nello svolgimento dell’azione amministrativa, ma solo di censurarne i vizi.

Si è inoltre, osservato, in dottrina che la discrezionalità tecnica è del tutto neutra ai fini della giurisdizione, in quanto occorrerà verificare se essa sia strumentale all’emanazione di un provvedimento discrezionale o vincolato. Difatti solo in quest’ultimo caso, a condizione che il vincolo sia posto dal legislatore nell’esclusivo interesse del privato, si avrà una posizione di diritto soggettivo e dunque si radicherà la giurisdizione del giudice ordinario (salvo che non si rientri in materie di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo).

Più di recente il Consiglio di Stato ha precisato ed integrato ulteriormente l’opzione giurisprudenziale in parola, affermando che nell’ambito del giudizio tecnico va distinto il profilo dei fatti che formano oggetto del giudizio dal profilo della valutazione stricto sensu intesa. Ciò significa che il giudice può sindacare i fatti apprezzati dalla PA, allo scopo di ricostruirli e accertarli correttamente, ma non può sostituirsi ad essa nella valutazione dei medesimi.

E’ evidente, peraltro, che laddove il giudice ritenga viziato il giudizio in parola e dunque annulli il provvedimento impugnato, spetterà alla PA riesercitare il proprio potere conformemente al dictum giudiziale. Ciò si evince dall’art. 26, secondo comma, l. 1034/1971 (l. Tar) che fa salvi gli ulteriori provvedimenti amministrativi a seguito della pronuncia di annullamento da parte del giudice.
Pertanto la PA dovrà rieffettuare la propria valutazione tecnica, emendandola dall’errore evidenziato dal giudice per il tramite della consulenza tecnica.

La circostanza surriferita induce alcuni a ritenere che il giudice, nel caso di discrezionalità tecnica, anche qualora annulli il provvedimento impugnato, non possa accogliere un’eventuale domanda risarcitoria presentata dal privato.

Difatti, secondo l’insegnamento della sentenza n. 500/1999 della Cassazione, qualora si tratti di interessi pretensivi, l’illegittimità del provvedimento amministrativo non è condizione sufficiente per accedere alla tutela risarcitoria, dovendosi effettuare, da parte del giudice, un giudizio prognostico circa la spettanza del bene della vita ambito dal privato. Pertanto nel caso di discrezionalità tecnica, qualora vengano in considerazione interessi pretensivi (ed è l’ipotesi assolutamente prevalente), alcuni ritengono che il giudice non possa procedere ad effettuare tale giudizio prognostico, in quanto invadrebbe (NB: in bella ho scritto invadrebbe e non invaderebbe, mi sa che ho sbagliato) una sfera riservata all’amministrazione.

Difatti, per quanto detto sopra, il giudice può censurare una valutazione tecnica erronea, ma dovrà comunque essere la PA a rieffettuarla in maniera corretta, nel momento in cui riesamina l’istanza del privato ai fini dell’eventuale accoglimento della medesima. Pertanto solo la valutazione positiva di tale istanza da parte della PA legittimerà il privato ad ottenere il risarcimento, nei limiti del danno da ritardo.

Secondo un altro orientamento dottrinale, invece, in tal casi sarebbe possibile accordare al privato un risarcimento secondo la tecnica della perdita di chances. Ciò sta a significare che il giudice non deve verificare che se la PA si fosse comportata correttamente avrebbe con certezza attribuito al privato il bene della vita da lui ambito, ma è sufficiente dimostrare la perdita della possibilità di conseguire un risultato patrimoniale favorevole, intendendo la chance come posta attuale del patrimonio. Naturalmente tale possibilità andrà quantificata in termini percentuali in base alle circostanze del caso concreto.

Voto: 14/20

DIRITTO CIVILE 23-01-2003

Premessi brevi cenni sull’inadempimento delle obbligazioni, indichi il candidato quale sia il regime probatorio ad esso applicabile. Precisi, in particolare, il criterio di riparto dell’onere della prova nel caso di domanda di adempimento, risoluzione o risarcimento del danno; nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento; nel caso in cui il debitore convenuto si avvalga dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c.. Indichi, infine, su chi incomba l’onere della prova in caso di inadempimento dell’obbligazione negativa.

Nell’adempimento delle obbligazioni, il debitore deve conformarsi alle regole della diligenza e della buona fede. Il canone della buona fede impone, al debitore, un comportamento che sia idoneo a soddisfare l’interesse del creditore, nei limiti in cui, non derivi al primo, un apprezzabile sacrificio della propria sfera giuridica.
Come si evince dall’art. 1218 c.c., il debitore, per non incorrere in responsabilità contrattuale, non può limitarsi ad eseguire la prestazione, atteso che la stessa deve essere “esatta”. Si evidenzia, pertanto, che il debitore non è inadempiente solo quando non esegue, in tutto o in parte, la prestazione o è in ritardo; anche la prestazione dell’aliud pro alio, in mancanza di un accordo di datio in solutum con il creditore, o la prestazione di un bene viziato integra inadempimento, perché il creditore ha interesse a ricevere la medesima prestazione dedotta nell’obbligazione.

Altro presupposto dell’inadempimento delle obbligazioni è l’imputabilità. Secondo una lettura di stampo soggettivistico, ai fini dell’imputabilità dell’inadempimento, analogamente ai canoni soggettivi applicati alla responsabilità aquiliana, si richiede il dolo o la colpa del debitore. Secondo una diversa lettura, l’imputabilità dell’inadempimento è esclusa solo dal caso fortuito o dalla forza maggiore.

L’inadempimento, pertanto,è la violazione, imputabile al debitore, del vincolo giuridico che intercorre tra il debitore ed il creditore. Nelle obbligazioni positive, l’inadempimento si concreta nell’inerzia del debitore o in una prestazione difforme da quella dedotta nell’obbligazione, atteggiandosi diversamente a seconda che trattasi di obbligazioni di fare o di obbligazioni di dare; nelle obbligazioni negative, l’obbligazione nasce già “soddisfatta”, non richiedendosi un comportamento del debitore, per cui è il comportamento del debitore che integra inadempimento.

La distinzione tra obbligazioni di dare ed obbligazioni di fare da una parte, ed obbligazioni negative dall’altra, rileva, talaltro, ai fini dell’individuazione del regime probatorio applicabile in caso di inadempimento.
Procedendo ad individuare i rimedi giudiziali di cui dispone il creditore, quando lo stesso non ricorra a strumenti di autotutela, si evidenzia che la domanda della parte attrice può contenere la richiesta di risarcimento del danno ex art. 1218 c.c. e, quando la fonte dell’obbligazione sia un contratto, il petitum può consistere, alternativamente, nella domanda di adempimento o di risoluzione per inadempimento ex art. 1453 c.c.. Quando il creditore propone l’istanza di adempimento o di risoluzione per inadempimento, nello stesso giudizio o in separato giudizio, può chiedere il risarcimento del danno, rapportato al danno emergente ed al lucro cessante.

A tal fine, si pone il problema di accertare, quali elementi probatori, il creditore insoddisfatto, debba fornire in giudizio per ottenere, attraverso i rimedi giudiziali di cui dispone, la soddisfazione indiretta dell’interesse di cui è portatore.

Il tessuto normativo, sul quale si snoda la problematica in questione, è rappresentato dagli artt. 1218 c.c., 1453 c.c. e 2697 c.c.. Ai sensi dell’art. 1218 c.c., che contiene un’inversione dell’onere della prova, il creditore, per ottenere il risarcimento del danno, può limitarsi ad allegare l’inadempimento del debitore, essendo onere del debitore provare l’adempimento o la non imputabilità dell’inadempimento. L’art. 1453 c.c. è la norma che ha destato maggiori problemi, perché non fornisce indicazioni chiare ai fini della prova dell’inadempimento; l’art. 2697 c.c. pone, a carico dell’attore, l’onere di provare i fatti posti a fondamento della propria domanda.

Il coordinamento di questa pluralità di referenti normativi, ha causato un contrasto giurisprudenziale nell’ambito della Cassazione, relativamente al regime probatorio applicabile alla risoluzione per inadempimento e all’azione di adempimento.

Se, infatti, non vi erano dubbi che il creditore, agendo in giudizio per chiedere il risarcimento del danno ex art. 1218 c.c., potesse limitarsi ad allegare l’inadempimento del debitore, non altrettanto chiaro risultava il regime probatorio a carico del creditore, che agiva per chiedere la risoluzione o l’adempimento. Secondo l’indirizzo seguito dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, prima del decisivo intervento delle Sezioni Unite, quando la domanda della parte attrice-creditrice avesse ad oggetto l’adempimento o la risoluzione ex art. 1453 c.c., il creditore, ai sensi dell’art. 2697 c.c., doveva dimostrare, oltre la scadenza del termine ed il titolo da cui derivava il rapporto obbligatorio, anche l’inadempimento del debitore, atteso che l’inadempimento del debitore è uno degli elementi posti a fondamento della domanda. Su tale tematica si registrava, però, un indirizzo minoritario, che poneva a carico del debitore l’onere di provare l’adempimento, potendo, il creditore, limitarsi ad allegare l’inadempimento del proprio debitore, oltre alla prova del titolo e della scadenza del termine.

Su tale controversa questione è intervenuta la Cass., Sez. Unite, sent. 30 ottobre 2001, che, aderendo all’orientamento minoritario, ha enunciato che il creditore possa limitarsi ad allegare l’inadempimento del debitore sia quando agisca con l’azione risarcitoria sia quando agisca con l’azione di risoluzione o di adempimento.

Nella parte motivazionale della sentenza, le Sezioni Unite, per giustificare la propria posizione adducono, prevalentemente, le argomentazioni esposte dall’orientamento minoritario della Cassazione. Si evidenzia, infatti, che nelle obbligazioni positive, la prova dell’inadempimento si concreta nella prova di un fatto negativo, per cui è più semplice che sia il debitore a fornire la prova di un fatto positivo, quale è l’adempimento, posto che lo stesso, nella maggior parte delle ipotesi, è in possesso di una quietanza o di un altro titolo analogo; diversamente, il creditore incontra maggiori difficoltà perché dovrebbe fornire la prova di un fatto negativo, quale è l’inadempimento nelle obbligazioni positive. Come ulteriore argomentazione, le Sezioni Unite, con la sentenza 30 ottobre 2001, richiamano la disparità di trattamento che si creerebbe tra il creditore che agisce con l’azione risarcitoria ed il creditore che agisce per ottenere la risoluzione o l’adempimento. Si evidenzia, infatti, che detta disparità di onere probatorio, sedimentata nella precedente giurisprudenza, non trova alcun referente normativo. Si rileva, altresì, che le Sezioni Unite richiamano il principio di persistenza dei diritti, per cui si presume che il diritto del creditore alla esecuzione della prestazione persista finchè la parte convenuta non dimostri l’estinzione o la modificazione del rapporto obbligatorio ai sensi del comma 2 dell’art. 2697 c.c..

Diversamente, quando si pone un problema di inesatto adempimento, anche l’orientamento minoritario della Cassazione, favorevole alla mera allegazione dell’inadempimento da parte del creditore, riteneva che l’inesattezza dell’inadempimento dovesse essere provata dal creditore, perché un inadempimento inesatto consiste, pur sempre, nella prova di un fatto positivo. La Cass. Sez. Un. 30 ottobre 2001 ritiene, invece, che anche in caso di in esattezza dell’adempimento, debba essere pur sempre il debitore a fornire la prova dell’esattezza dell’adempimento, sia che la domanda della parte attrice abbia ad oggetto la richiesta di risarcimento sia che abbia ad oggetto la richiesta di risoluzione o di adempimento, perché si tratta di un fatto che rientra nella sfera di dominio del debitore. Pertanto, il creditore può limitarsi ad allegare l’inesattezza dell’inadempimento, mentre il debitore-convenuto, per non incorrere in responsabilità contrattuale, deve fornire la prova relativa alla esattezza della propria prestazione.

Quando il debitore propone la domanda riconvenzionale, avente ad oggetto l’eccezione di inadempimento ex art.1460cc, si inverte il ruolo processuale del debitore e del creditore: il debitore deve fornire gli elementi di prova a carico dell’attore, ed il creditore gli elementi di prova a carico del convenuto. Ne segue che il debitore deve provare soltanto il titolo da cui derivano le prestazioni a carico dei contraenti e la scadenza del termine della prestazione posta a carico del creditore, potendo limitarsi ad allegare l’inadempimento o l’inesatto adempimento del creditore-attore; per converso, il creditore al quale è opposta l’eccezione di inadempimento deve fornire la prova del proprio adempimento o dell’esattezza della prestazione eseguita.

Quando l’obbligazione è negativa, non si richiede un comportamento del debitore satisfattivo dell’interesse del creditore, perché l’interesse del creditore è già soddisfatto nel momento in cui sorge il rapporto obbligatorio.

Atteso che nelle obbligazioni negative il comportamento attivo del debitore concreta un inadempimento, le Sezioni Unite adottano un differente criterio di riparto probatorio. Si evidenzia, infatti, che nelle obbligazioni negative sia più facile per il creditore fornire la prova di un fatto positivo, quale è l’inadempimento del debitore; sarebbe, invece, più difficile, per il debitore, fornire la prova di un fatto negativo. Inoltre, applicando il principio della persistenza dei diritti alle obbligazioni negative,si verifica un effetto opposto a quello delle obbligazioni positive: presumendosi la persistenza del diritto del creditore, che nasce soddisfatto, deve essere lo stesso creditore a fornire la prova della violazione posta in essere dal debitore.

Voto: 12/20

DIRITTO AMMINISTRATIVO 22-01-2003

La discrezionalità tecnica della Pubblica Amministrazione. Forme e limiti del sindacato del giudice amministrativo.

L’attività della Pubblica Amministrazione può assumere la forma di un’attività vincolata o di un’attività discrezionale: nella prima è rimessa al legislatore la selezione dell’interesse prevalente; nella seconda il legislatore si limita a stabilire i criteri ed i principi fondamentali, come nella riserva relativa di legge, per consentire all’Amministrazione un’attività più flessibile nel conformarsi al caso concreto. La differente forma che assume l’attività della Pubblica Amministrazione incide sulla situazione giuridica di cui è portatore il privato, con effetti ridondanti sulla giurisdizione e sulla tutela di cui dispone il privato.
Per potere analizzare questi aspetti è necessario distinguere, nell’ambito della discrezionalità, la discrezionalità tecnica dalla discrezionalità amministrativa, rapportandola con il merito amministrativo, che si pone come limite al sindacato del giudice amministrativo.

Una parte della dottrina, espressione di tendenze più risalenti e superate, fa rientrare la discrezionalità tecnica nell’alveo del merito amministrativo, ritenendo che la Pubblica Amministrazione debba, in ogni caso, operare delle scelte di opportunità nell’ambito degli interessi coinvolti che hanno natura tecnica. Successivamente la dottrina prende atto che, nella discrezionalità tecnica, l’Amministrazione non opera una ponderazione tra la pluralità di interessi pubblici e di interessi privati coinvolti nello stesso procedimento.

Si evidenzia, infatti, che nella discrezionalità amministrativa, secondo la tesi formulata dal Giannini, avallata dalla l. n. 241/1990, l’Amministrazione seleziona l’interesse pubblico prevalente, comparando gli interessi sottesi nell’ambito del procedimento amministrativo; per converso, nella discrezionalità tecnica, la legge seleziona l’interesse prevalente, rimettendo all’Amministrazione l’individuazione dei casi che possono essere in essa sussunti. Si pensi alle ordinanze contingibili ed urgenti che il Ministro per la sanità può emanare ex art. 261 rd. n. 1265/1934: è lo stesso legislatore, in presenza di determinati presupposti, che dichiara prevalente l’interesse alla sanità, facendo soccombere l’interesse del privato alla intimità del proprio domicilio; il Ministro individua, caso per caso, quando la malattia possa qualificarsi come epidemia. Lo stesso dicasi per il provvedimento amministrativo con cui si pone un vincolo paesaggistico ad un bene che sia di non comune bellezza, o per le ordinanze in materia di inquinamento.

Parte della dottrina distingue tra accertamenti tecnici e discrezionalità tecnica, a seconda che l’accertamento della realtà avvenga o meno in base a scienze esatte.Il distinguo è superato dalla dottrina prevalente, che non distingue più tra scienze esatte e scienze non esatte, perché la realtà fenomenica si basa prevalentemente su leggi probabilistiche che, come le leggi universali, sono leggi scientifiche.

Si evidenzia, altresì, la tendenza a distinguere la discrezionalità tecnica dalla discrezionalità mista, perché, nell’ambito della discrezionalità mista, la discrezionalità tecnica coesiste con la discrezionalità amministrativa. Si pensi alle ipotesi in cui si rimetta all’Amministrazione la scelta tra l’abbattimento o meno degli animali infetti: la individuazione della malattia si snoda secondo parametri di natura tecnica, mentre la scelta se abbattere o meno gli animali è espressione della discrezionalità amministrativa della Pubblica Amministrazione. In sede giurisdizionale, quando vengono in considerazione ipotesi di discrezionalità mista, si deve distinguere a seconda che il provvedimento amministrativo venga impugnato nella parte tecnica o nella parte espressione di discrezionalità amministrativa, perché differenti sono i limiti al sindacato giurisdizionale.

Premesso che i provvedimenti amministrativi possono essere sindacati per i vizi di legittimità, ossia per violazione di legge, per incompetenza e per eccesso di potere, si procede ad individuare le forme ed i limiti al sindacato del giudice amministrativo, distinguendo la situazione antecedente dalla situazione successiva all’emanazione della l. 205/00, che ha inciso profondamente sul processo amministrativo.

Prima della l. 205/00 il potere cognitorio del giudice amministrativo era limitato dai mezzi probatori di cui disponeva il processo amministrativo, nel quale mancava la previsione dello strumento della consulenza tecnica, a differenza del processo civile. Il giudice amministrativo poteva sindacare il provvedimento amministrativo attraverso la richiesta di documenti, di schiarimenti e di verificazioni. In tal modo, le scelta di carattere tecnico operate dalle Amministrazioni, erano sindacabili in modo limitato, perché il giudice amministrativo non aveva gli strumenti probatori del giudice civile. Così si creavano anche problemi di disparità di trattamento tra situazioni di diritto soggettivo sottoposte alla cognizione del giudice ordinario e situazioni di diritto soggettivo attratte nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Prima del d.lgs. 80/98 e della l. 205/00, la violazione delle norme tecniche era sindacabile nella misura in cui concretasse un vizio estrinseco all’atto amministrativo. Così, per ritornare agli esempi precedenti, il giudice amministrativo non poteva sindacare se il bene, al quale era apposto un vincolo paesaggistico, fosse o meno di non comune bellezza, ovvero se il Ministro avesse emanato l’ordinanza ex art. 261 rd. 1265/1934 in presenza di una vera e propria epidemia; il giudice poteva accertare se l’ordinanza fosse motivata in modo illogico o contraddittorio, o se vi fosse un travisamento dei fatti. La necessità, nel processo amministrativo, dello strumento della consulenza tecnica era avvertita anche per sindacare l’attività tecnica delle Autorità indipendenti, che, avendo già un deficit di democraticità, destavano preoccupazioni quando decidevano questioni altamente tecniche. Si pensi all’Autorità per l’energia elettrica ed il gas, che ex art. 2 dpr n. 244/2001, in attuazione della l. 481/95, può emanare provvedimenti individuali che implicano scelte di discrezionalità tecnica, come si evince anche dal successivo art. 9, che consente all’Autorità l’espletamento di perizie e consulenze per l’accertamento della qualità dei servizi resi all’utenza.

La mancanza di uno strumento probatorio, come la consulenza tecnica, di fatto, sottraeva dette Autorità ad un controllo giurisdizionale.

Si evidenziava, così, a livello giurisprudenziale, la tendenza a superare questo sindacato debole, e una sentenza del Tar Lombardia già nel 1997, pur in assenza di una norma come l’attuale art. 16, l. 205/00, aveva ammesso provocatoriamente lo strumento della consulenza tecnica per sindacare la discrezionalità tecnica del provvedimento amministrativo.

Lo strumento della consulenza tecnica è ammesso, a livello normativo, dapprima nell’ambito della giurisdizione esclusiva con il d.lgs. 80/98. Sull’estensione dello strumento della consulenza tecnica, dopo il d.lgs. 80/98, si registravano interpretazioni contrastanti: una parte della dottrina limitava lo strumento della consulenza tecnica alle ipotesi di giurisdizione esclusiva individuate in detto decreto (servizi pubblici, appalti ed urbanistica), altra parte della dottrina applicava estensivamente detto strumento a tutte le ipotesi di giurisdizione esclusiva. Il problema è superato con la l. 205/00 che estende lo strumento della consulenza tecnica a tutte le ipotesi di giurisdizione esclusiva e di giurisdizione di legittimità.

Ammettendo la consulenza tecnica nel processo amministrativo, il sindacato del giudice amministrativo diventa più penetrante perché il giudice amministrativo, come opportunamente ha evidenziato la dottrina, conosce anche del rapporto controverso nella misura in cui può accertare vizi intrinseci al provvedimento amministrativo.

Come evidenzia la dottrina, la l. 205/00 si inserisce in quel trend normativo e giurisprudenziale teso a spostare sempre più il processo amministrativo da un processo sul fatto ad un processo sul rapporto, scalfendo sempre più il baluardo della insindacabilità degli “interna corporis” della Pubblica Amministrazione. Nel momento in cui può disporsi una consulenza tecnica per accertare se il vincolo paesaggistico attenga effettivamente ad un bene di non comune bellezza, il sindacato del giudice amministrativo diventa più penetrante. L’ammissione dello strumento della consulenza tecnica consente di ampliare il sindacato del giudice amministrativo alle diverse forme sintomatiche di eccesso di potere. Così, aderendo alla tesi che riconduce l’errore di fatto tra le forme sintomatiche di eccesso di potere, è possibile arrivare ad una declaratoria di illegittimità e ad una pronuncia risarcitoria laddove, in sede probatoria, emerga che l’emanazione del provvedimento sia avvenuta in base ad una falsa rappresentazione della realtà.

A livello giurisprudenziale, l’estensione del sindacato giurisprudenziale sta affermandosi un po’ timidamente e le prime applicazioni si registrano in materia concorsuale ed in materia urbanistica.
Anche dopo l’emanazione della l. 205/00, rimane precluso, nel processo amministrativo, l’esperimento della confessione e del giuramento, perché sono prove legali, che, vincolando il giudice, sono incompatibili con il processo amministrativo.

Voto: 12/20

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Diritto penale

Dopo aver esaminato le linee essenziali degli istituti della preterintenzione e dei delitti aggravati dall’evento, tratti il candidato della responsabilità dello spacciatore per la morte del tossicodipendente.

Com’è reso palese dallo stesso nomen, l’istituto della preterintenzione permette di sanzionare i delitti compiuti dal reo oltre la sua intenzione. Più precisamente si ha preterintenzione quando la legge addossa al colpevole di un delitto il fatto più grave, e non voluto, derivato dalla sua azione od omissione. La legge prevede espressamente solo due ipotesi di delitto preterintenzionale: l’omicidio (art. 584 c.p.) e l’aborto (art.17 legge 194/1978). In entrambi i casi da una condotta diretta a commettere un delitto meno grave, percosse o lesioni nel primo caso, esclusivamente lesioni nel secondo, deriva una conseguenza più grave: la morte o l’interruzione della gravidanza.

Questo diverso evento è attribuito al reo a titolo di responsabilità obiettiva cioè per il suo semplice verificarsi. Si ritiene, infatti, che i casi di preterintenzione configurino delle ipotesi d’imputazione mista a titolo di dolo e di responsabilità oggettiva: il dolo è l’elemento soggettivo presente nel delitto programmato dall’agente, la responsabilità oggettiva è il criterio d’imputazione per l’evento poi in realtà verificatosi. E’ stato rilevato come, così intesa, la preterintenzione non sia altro che una forma particolare di aberratio delicti che è disciplinata all’art. 83 comma primo del c.p.. Secondo tale opinione, infatti, anche l’ipotesi che si prospetta all’art. 83, rubricato “evento diverso da quello voluto dall’agente”, sarebbe un caso di responsabilità mista a titolo di dolo e di responsabilità oggettiva dovendosi ritenere l’inciso “ a titolo di colpa” non il criterio d’imputazione (che è invece la responsabilità obiettiva), ma semplicemente indicativo della pena da comminare: si ritiene cioè che la pena da applicare sia la stessa prevista per l’ipotesi colposa.

Considerazioni in parte in parte analoghe possono svolgersi per i delitti aggravati dall’evento. Questi delitti si caratterizzano per la loro struttura: alla commissione di un delitto accede sempre una conseguenza che si aggiunge all’evento già verificatosi, dilatandone ed approfondendone la gravità (cd “evento aggravatore”). Quest’aggravamento delle conseguenze non dev’essere voluto dall’agente, altrimenti muterebbe il titolo del reato. Si pensi, ad esempio, al più tipico esempio di delitto aggravato dall’evento cioè l’omissione di soccorso (art. 593 c.p.). Se l’evento aggravatore (le lesioni o la morte) fosse in realtà previsto e desiderato dal mancato soccorritore, allora il delitto commesso sarebbe quello, ben più grave, di lesioni volontarie od omicidio. Appare quindi evidente la distinzione rispetto all’ipotesi della preterintenzione: in quel caso il delitto voluto non si compie e si compie invece un delitto diverso, nei delitti aggravati dall’evento, al contrario, il delitto programmato si compie effettivamente, ma a questo si somma un elemento ulteriore che ne altera sostanzialmente la lesività. La legge ricorre sovente a questa tecnica sanzionatrice per motivi di politica criminale. Sapere che gli ulteriori sviluppi della propria condotta criminosa saranno comunque sanzionati dovrebbe avere, nell’ottica del legislatore, la funzione di rafforzare la prevenzione generale. Solo per ricordare altre importanti ipotesi di evento aggravatore ci si può riferire all’avvenuta condanna dell’innocente per il caso di calunnia (art. 368 c.p.), ovvero alle lesioni od alla morte nel, purtroppo frequente, delitto di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli.

Si è posto però un problema che è comune tanto alla preterintenzione quanto ai delitti aggravati dall’evento. Ci si è chiesto, cioè, se sia conforme al principio costituzionale della responsabilità personale (art. 27 Cost.) l’avere previsto la responsabilità dell’agente per eventi che non sono voluti direttamente in quanto non inclusi nell’elemento soggettivo del dolo o della colpa. In particolare, per i delitti aggravati dall’evento, assume importanza fondamentale delineare il fatto come autonomo reato o come circostanza aggravante. Nel primo caso, secondo la dottrina prevalente, si avrà un’imputazione a titolo di colpa e di responsabilità oggettiva quante volte l’agente non possa prevedere o figurarsi l’accadere dell’evento aggravatore; se considerato, al contrario, ipotesi circostanziata del delitto base, stante il criterio di imputazione delle circostanze previsto dall’art. 59 c.p., non si potrà addossare al reo la responsabilità per un evento da lui non conosciuto oppure incolpevolmente ignorato.

Un tipo particolare di delitto aggravato dall’evento è previsto all’art. 586 c.p.. Questa norma disciplina l’ipotesi generale in cui l’evento aggravatore di un qualsivoglia delitto doloso sia la morte o le lesioni. Si specifica nello stesso art. 586 c.p. l’applicabilità dell’art. 83 c.p. che, come cennato, riguarda l’aberratio delicti.
Un’ipotesi tipica di aberratio delicti è quella della morte del tossicodipendente in seguito ad uno dei reati previsti agli artt. 72 e segg. del D.P.R. 309 del 1990. Questo tema è stato oggetto di vivaci dispute sia in dottrina sia in giurisprudenza ove, peraltro, non esiste un orientamento consolidato. L’oggetto del contendere è stabilire se (ed in che limiti) lo spacciatore possa essere considerato responsabile anche per l’eventuale morte del tossicodipendente suo “cliente”. Anticipando le conclusioni si può affermare che non c’è identità di vedute tra dottrina e giurisprudenza. Le discussioni ed i contrasti si incentrano, fondamentalmente, su tre aspetti. In primo luogo si discute se sia ammissibile una responsabilità penale per un accadimento ulteriore posto al di fuori della condotta integratrice del fatto tipico. Secondariamente si dibatte sul criterio di imputazione da adottare a carico dello spacciatore, se cioè ci si debba riferire alla colpa od alla responsabilità oggettiva. Infine, data per ammessa la responsabilità per la morte del tossicodipendente, ci si chiede quali siano i suoi confini.

Circa il primo punto, ricordato che la responsabilità penale non può che essere personale, cioè colpevole, ovvero fondata sul dolo o sulla colpa dell’agente, è esclusa in via di principio ogni forma di responsabilità oggettiva. Il principio qui in re illecita versatur tenetur etiam pro casu non ha diritto di cittadinanza nel nostro diritto penale. La Corte costituzionale ha infatti specificato in due successive sentenze che il dolo o la colpa devono essere presenti in tutti gli elementi più significativi del reato e devono essere riconducibili al reo. Ne consegue che i casi di responsabilità oggettiva cd “pura” non dovrebbero essere ammessi. Proprio in ragione di queste considerazioni, per un’opinione, l’art. 83 c.p. dovrebbe ritenersi illegittimo perché fonte di responsabilità oggettiva, per così dire, mascherata. Infatti dalla disposizione che prescrive la punibilità del reo che sbaglia nell’esecuzione del reato e che causa un reato diverso ed ulteriore, si è evidenziato come la sanzione scatti per il reato cd “aberrante” per il solo fatto della commissione. In tali casi la norma fa riferimento ad una punibilità “a titolo di colpa” , ma si tratterebbe, come cennato in precedenza, non di una disposizione “incriminatrice” ma “disciplinatrice”. In altre parole lo spacciatore, punibile per la morte del tossicodipendente, sarebbe punito a titolo di responsabilità oggettiva, ma con la pena che gli sarebbe comminata come se il reato fosse colposo.

Altra teoria, venendo al secondo punto da analizzare ovverosia al criterio di imputazione, ha ritenuto di qualificare questa ipotesi come responsabilità mista a titolo di dolo e di colpa. Si è rilevato, per confortare tale ricostruzione, che la responsabilità colposa è configurabile, tra gli altri casi, quando in seguito alla violazione di una norma di legge si verifica un evento non voluto da parte dell’agente. Sarebbe proprio questo il caso dello spacciatore: la norma violata è quella che vieta lo spaccio, l’evento non voluto è la morte del tossicodipendente, il criterio di imputazione è la colpa. Questa, peraltro, è una tesi largamente accolta in giurisprudenza. Si è però obbiettato che la responsabilità colposa per violazione di legge non può conseguire, meccanicamente, dalla violazione di una qualsiasi norma, ma deve trattarsi della violazione di un precetto specificatamente posto a tutela del bene leso. Ed è dubbio che le norme che vietano lo spaccio di stupefacenti siano specificatamente finalizzate a tutelare la salute del tossicodipendente. Esse tendono invece principalmente a reprimere il fenomeno della produzione e del traffico di stupefacenti che, per le dimensioni sopranazionali che spesso assumono nonché per la loro preoccupante diffusività, destano notevole allarme sociale.

Secondo una diversa opinione, un modo più coerente coi principi costituzionali di ammettere la responsabilità dello spacciatore potrebbe essere, e siamo al nodo che attiene ai limiti della responsabilità, quello di considerare l’evento- morte del tossicodipendente come se si trattasse di una circostanza aggravante. Per il principio delle rilevanza soggettiva delle circostanze che, com’è noto, ha da alcuni anni sostituito l’opposto sistema della rilevanza puramente obbiettiva, lo spacciatore potrà allora essere punito ex art. 586 c.p. anche per la morte del tossicodipendente solo se sapeva che si sarebbe verificato l’evento aggravatore, o poteva facilmente immaginarlo. Ad esempio se gli erano note le precarie condizioni di salute del tossicodipendente, o se era informato di una sua preesistente malattia che lasciava presagire la possibile o probabile morte. Al contrario non si applicherà il 586 c.p. quando lo spacciatore non conosceva affatto il tossicodipendente (ad esempio perché cliente occasionale), o quando la morte sopraggiunga del tutto imprevedibilmente su soggetti che non manifestavano alcun tipo di patologia.

Sempre in argomento, per completezza espositiva, conviene da ultimo menzionare l’art. 81 del citato D.P.R. 309 del 1990. Viene configurata una particolare attenuante speciale per lo spacciatore che presti assistenza al tossicodipendente nei casi in cui sarebbero applicabili gli artt. 586, 589, 590 c.p.. Si tratta di una norma che finora ha avuto scarsa applicazione e che dovrebbe invogliare il reo, dal punto di vista di una rinforzata tutela della salute del tossicodipendente “vittima” dello spacciatore, a limitare e contenere i danni della sua condotta.

Nel prossimo numero della rivista vi daremo la bibliografia essenziale per lo studio e consigli di studio per le singole materie.

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