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mercoledì 21 luglio 2010

La causa del contratto. Ovvero: i vestiti nuovi dell'imperatore

Il precedente editoriale si occupava del linguaggio giuridico.

In questo proseguiamo il discorso, trattando, in chiave aneddotica, quello che è considerato da tutti come l’istituto più complesso e difficile del diritto civile, la causa del contratto, traendo spunto da una sentenza della Cassazione del 2006, riassunta in questo numero ("Nozione di causa come sintesi degli interessi concreti del contratto").




Dopo la laurea mi iscrissi alla scuola di specializzazione in diritto civile di Camerino, una scuola triennale in cui si approfondiscono i vari settori del diritto civile. Veniva da pensare, prima dell’iscrizione, che al termine avrei saputo il diritto civile come un vero esperto. Alla fine del triennio decisi di fare la tesi sulla causa del contratto. Andai dal mio professore con cui, a suo tempo, avevo fatto anche la tesi in diritto civile all’università, e gli proposi il tema. La risposta fu: “è un argomento troppo difficile, non riusciresti a farlo”. Obiettai che, all’epoca, avevo già scritto un manuale sulle obbligazioni, ero avvocato, e forse sarei riuscito a capire un argomento come la causa. La risposta fu che su un argomento come questo non si era ancora cimentato nessuno, tranne un tal Ferri, nel 1955, perché era un argomento troppo complesso.

Andai da altri tre professori e la risposta fu la stessa: è un argomento troppo difficile.
Fu qui che ebbi la certezza che il nostro sistema giuridico non funziona, ma che non funziona anche, o soprattutto, per la mentalità che esiste in determinati ambienti. Infatti, riflettendoci, il discorso era assurdo per una serie di ragioni.

Prima di tutto non è accettabile l’idea che un istituto giuridico possa risultare incomprensibile ad uno specialista di quella materia, perché non stiamo parlando di un problema complesso come quello dell’esistenza di Dio o del senso della vita, ma di un istituto giuridico, cioè di un concetto che dovrebbe servire per risolvere problemi pratici, della vita di tutti i giorni, del cittadino comune. Ora, è chiaro che se un concetto giuridico è troppo complesso per poter essere compreso anche da un avvocato, specializzato con tanto di corso ad hoc, che ha anche pubblicato un manuale, allora tale istituto risulterà inservibile per il fine cui dovrebbe essere destinato: cioè regolare i rapporti tra cittadini. Come si fa a regolare un rapporto tra due persone, in base a una norma incomprensibile alla maggioranza dei giuristi?

In secondo luogo, non è accettabile questa arrendevolezza di fronte alle complicazioni: non è accettabile cioè che esista un istituto difficile da capire, e che si rinunci alla sua comprensione perché è troppo difficile.

Mi fu chiaro che qualcosa non andava nel modo di ragionare dei docenti, prima ancora che nell’istituto della causa del contratto.

Feci lo stesso la tesi, trovando un docente, il professor Rizzo, che appoggiò il mio studio. E fu così che mi resi conto di qual è il profondo mistero che avvolge la causa del contratto. Riuscii cioè a trovare la chiave per penetrare nei segreti dell’istituto. La risposta dopo mesi di studio fu evidente: i vari libri di testo dicevano tutti la stessa cosa, ma alcuni ne parlavano in un modo talmente incomprensibile da non accorgersi neanche di dire la stessa cosa. Mentre altri autori – come Betti, Santoro Passarelli - erano chiarissmi, solo che pochi degli autori moderni si erano presi la briga di leggerli. Così ad esempio, Gazzoni dice le stesse cose del Betti, ma mentre quest’ultimo è comprensibile, il primo è di difficile comprensione.

Vediamo di spiegare in modo semplice, ai non civilisti, il problema della causa. Sostanzialmente le teorie sulla causa possono essere ricondotte a 4:

1) La teoria oggettiva, secondo cui la causa è la funzione economico - sociale del contratto e che si deve principalmente al Betti.
2) La teoria soggettiva, secondo cui la causa è lo scopo pratico del contratto.
3) La teoria “moderna” di Gazzoni e Bianca, che vede la causa nella “funzione economico individuale del contratto”, ovvero nella sintesi degli interessi concreti realizzati dal contratto.
4) C’è poi un’altra teoria, che si deve a Gorla e Sacco, ma che per ora tralasciamo.

Leggendo alcuni dei manuali più recenti si apprende che la teoria oggettiva trascura l’aspetto soggettivo della contrattazione, e per questo va ripudiata. Inoltre viene mossa una serie di critiche alla teoria oggettiva, per poi alfine giungere alla “moderna” teoria della causa, quella, appunto della funzione economico individuale.

Prendendo però la voce “Causa” del novissimo Digesto, scritta da Betti negli anni 50, ci si accorge che di 4 paragrafi ben 2 sono dedicati all’aspetto “soggettivo” della causa (sic!). Dopodichè si inizia a leggere il suo scritto e, dopo un’iniziale definizione di causa come “funzione economico sociale”, ci si accorge che Betti approda – alcune pagine più in là - alla definizione di causa come “funzione economico individuale”, ovvero come la sintesi degli interessi concreti delle parti. Cioè né più né meno di quel che affermano le “moderne” teorie di Gazzoni, Bianca, ecc. Né più né meno di ciò che ha detto la sentenza riassunta in questo numero di AltalexMese.

E’ probabile che i giudici della suprema Corte, nella sentenza che andiamo a riassumere, non abbiano mai letto Betti, il che sarebbe normale, dato che, se un giudice prima di stendere una sentenza dovesse leggere tutto ciò che è stato scritto su ogni argomento, potrebbe partorire al massimo una sentenza l’anno. Ecco perché i giudici definiscono come moderna la tesi della funzione economico individuale e obsoleta la teoria (identica alla precedente) della funzione economico sociale. Il problema è che questo errore di fondo si riscontra anche in manuali diffusi, come il Bianca e il Gazzoni, che dovrebbero essere i testi di riferimento principali per noi studiosi e studenti.

Ma anche questo non sarebbe un problema grave. Capita di scrivere cose inesatte, di non leggere attentamente le fonti. Lo so bene anche io, che mi sono reso conto di un errore su un mio testo dopo diverso tempo, sol perché me lo ha fatto notare un lettore, e quindi so che si tratta di una cosa che può capitare. E chissà quanti errori potranno sfuggire involontariamente in questa rivista.

L’errore vero è un errore di mentalità, che facciamo tutti. E’ quello di considerare normale un linguaggio troppo spesso incomprensibile. Ed è quello di non avere il coraggio di dirlo apertamente e di ribellarci a questo stato di cose, che quindi ci viene proposto all’università, negli studi post universitari, negli articoli, negli atti giudiziari. Già all’università i professori ci fanno studiare testi incomprensibili, senza che nessuno, né studenti né colleghi, dica realmente le cose come stanno. Io stesso, insegnando all’università, lo confesso, non avrei mai il coraggio di andare da un collega e dirgli “sai caro… ho letto il tuo testo. Lo trovo incomprensibile e se lo trovo incomprensibile io, penso a quei poveracci dei tuoi studenti”.

Anche nello scrivere questo editoriale, mi sono posto mille scrupoli, volevo dire le cose in modo soft, per non urtare la suscettibilità di nessuno; avrei voluto scrivere, ad esempio, che le varie teorie sulla causa “convergono quasi tutte su un’impostazione di fondo”; avrei potuto scrivere che “il pensiero di Betti era stato mal interpretato e oggettivizzato, quando invece non era immune anch’egli da riflessi soggettivi”.

Poi però c’ho ripensato. In fondo, mi sono detto, è un editoriale, non un articolo di dottrina. Allora scriviamolo apertamente: le teorie sulla causa (fatta eccezione per alcuni, come Sacco o Gorla) dicono tutte la stessa cosa. E la teoria di Gazzoni è identica a quella del Betti, nonostante il primo la critichi tanto. E la sentenza che oggi abbiamo riassunto - vogliamo dirlo francamente? – è scritta in modo difficile e anche se, per un appassionato del tema della causa come me, essa risulta essere una sintesi perfetta del pensiero della dottrina attuale, mi domando quanto essa potrà essere capita da un penalista, da uno studente, da un commercialista, ecc.

Insomma, se la causa è un argomento troppo complesso, il problema non è nell’istituto in sè, ma nel fatto che (cito Gorla, nel suo testo “Il contratto”, proprio con riferimento alla causa) il diritto civile è diventato una “selva selvaggia”, ad opera di tutti noi, giuristi di tutti i tipi, che assuefatti a questo linguaggio e questo modo di procedere abbiamo spesso paura di dire le cose come stanno.

Ma questo problema non è solo del diritto civile. E’ di tutte le branche del diritto. Le materie peggiori, forse, sono quelle di diritto del lavoro e di diritto tributario. Se infatti la sezione di diritto del lavoro e tributario, curata in particolare da Ciro Pacilio, oltre che da me, stenta a decollare, è perché non siamo ancora riusciti ad assestarci su standard qualitativi che riteniamo sufficienti. Ma la colpa non è (solo) dei collaboratori. E’ delle sentenze, dei libri, di tutto un sistema, per cui siamo arrivati al paradosso che non riusciamo neanche a semplificare l’esistente, in quanto provare a semplificare è addirittura più complicato che lasciare le cose così come sono.

Per ora, non essendo un esperto di diritto tributario o del lavoro, quando mi vengono sottoposti contributi di questa materia vengo preso dallo sconforto, perché purtroppo non sono in grado neanche di capire se ciò che non capisco dipende alla mia impreparazione nella materia, o dal modo di scrivere del collaboratore. E la tentazione è di lasciare il diritto e tornare ad occuparmi di shiatsu, che da quando faccio l’avvocato non pratico più.

Finisco con un aneddoto di questi giorni, che si commenta da solo. Una mia amica sta preparando un ricorso di diritto tributario avverso una cartella esattoriale di un comune del nord, relativa ad una ICI che pare non dovuta, perché erroneamente e inspiegabilmente la somma totale da pagare risulta essere il triplo della cifra corretta che risulta dai calcoli. Preparato il ricorso di circa 20 pagine (ma non bastava scrivere: cari giudici, l’ICI è 1000 euro l’anno, perché mi volete far pagare 3000 euro per un solo anno? Vi siete sbagliati. Vi dispiace correggere?) con decine di motivi di doglianza, facciamo leggere il ricorso ad un amico che sta in commissione tributaria, per chiedere quale, dei motivi di ricorso è fondato, a suo parere. La sua risposta è stata la seguente e merita di essere messa in corsivo ed evidenziata: Metti tutti i motivi. Non si sa mai quali motivi vengono accolti. Quando non ci capiamo niente neanche noi scriviamo nella motivazione della sentenza “i motivi del ricorrente appaiono fondati” così risolviamo il problema. Sai, spesso non abbiamo tempo per leggere e capire tutta la normativa…

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